Se nel divieto di detenzione armi non sono chiaramente prospettati i rischi nascenti da un’effettiva coabitazione tra la persona interessata e il genitore con condanne penali, i quali dunque non condividono né la residenza né il domicilio, il divieto è annullabile con ricorso.
In questo articolo sposto l’attenzione sull’eterno dibattito riguardante i rischi derivanti da una convivenza con familiari aventi pregiudizi penali.
Dunque, per avere dati ed informazioni aggiornate, il focus deve dirigersi per forza sulla sentenza del Tar Palermo Sezione Terza n. 832/2020, pubblicata in data 28.04.2020.
Mi soffermo su questa pronuncia in quanto, oltre ad essere una decisione di primo grado sintetica in quanto emessa ai sensi dell’art. 60 c.p.a., prevede pure la condanna alle spese di causa del resistente Ministero dell’Interno, parte soccombente nella lite.
Ma seguitemi più da vicino ed esaminiamo insieme il caso, visto che può tornare utile per una varietà di situazioni analoghe.
La parte privata chiede l’annullamento del decreto che ha vietato al ricorrente di detenere tutte le armi possedute a qualsiasi titolo.
Il d.d.a. (divieto detenzione armi) è stato adottato dall’amministrazione, a carico del familiare interessato, per procedimenti penali del genitore convivente.
Tutto questo, però, per il Tar non è sufficiente a confermare la bontà del divieto irrogato.
Come ho anticipato, quindi, il provvedimento risulta adottato dall’amministrazione esclusivamente in ragione delle condanne penali riportate dal genitore della ricorrente.
Il Tar però, sul punto, è lapidario.
La giurisprudenza prevalente, se, da un lato, riconosce, ai sensi degli artt. 11, 39 e 43 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, rispettivamente al Prefetto e al Questore, la facoltà di vietare la detenzione di armi, munizioni e materie esplodenti e di ricusare la licenza di porto d’armi con un’ampia discrezionalità nel valutare, con il massimo rigore, qualsiasi fatto o circostanza i quali ( seppure non penalmente rilevanti ( possono minare, in base a un giudizio prognostico, la piena e assoluta affidabilità di cui deve godere ogni soggetto che aspira a mantenere o rinnovare il porto d’armi e il permesso di detenzione di armi, munizioni e materie esplodenti, per altro verso, impone che tale potere venga esercitato «nel rispetto dei canoni tipici della discrezionalità amministrativa, sia sotto il profilo motivazionale che sotto quello della coerenza logica e ragionevolezza, dandosi conto in motivazione dell'adeguata istruttoria espletata al fine di evidenziare circostanze di fatto in ragione delle quali il soggetto sia ritenuto pericoloso o comunque capace di abusi; ne consegue che il pericolo di abuso delle armi non solo deve essere comprovato, ma richiede una adeguata valutazione non del singolo episodio ma anche della personalità del soggetto sospettato che possa giustificare un giudizio prognostico sulla sua sopravvenuta inaffidabilità» (T.A.R. Umbria, Sez. I, 23 gennaio 2017, n. 97; T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. III, 12 dicembre 2012, n. 2147; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 10 novembre 2011, n. 1350; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 12 luglio 2010, n. 16669).
Ricorda il Tar che la ricorrente è titolare di un permesso di detenzione d’armi e munizioni già precedentemente concesso senza che le circostanze predette (la sola parentela con il padre) abbiano mai assunto alcuna rilevanza nel giudizio di affidabilità che l’ha di volta in volta interessata.
In questo senso depone anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. III, 14 giugno 2012, n. 3527) secondo cui, in caso di richiesta di rinnovo di titolo di polizia già in passato più volte rinnovato, l’Amministrazione non può esimersi dall’indicare, nella motivazione dell’eventuale atto di diniego, il mutamento delle circostanze, di fatto e soggettive, che l’avevano già indotta a rilasciare, negli anni antecedenti, il suddetto titolo.
Poi, una tra le cose più importanti: nel provvedimento impugnato non sono prospettati rischi di effettiva coabitazione tra la ricorrente e il genitore che non condividono né la residenza né il domicilio.
In conclusione, in accoglimento del ricorso il provvedimento impugnato viene annullato e il Ministero dell’Interno condannato alle spese, che sono liquidate in misura ridotta solo perché l’attività difensiva delle parti è stata minima, visto il rito adottato ex art. 60 c.p.a. (sentenza in forma semplificata).
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